Figlia mia, sogno della mia vita, non chiedermi di lasciarti andare. Sono passati tanti anni da quell’ultima fredda telefonata, ma ricordo ancora come se fosse ieri gli occhi di tuo padre che si staccano dal pavimento per posarsi sul mio volto impaurito. “Tornerà, mi ha detto che tornerà”, e invece la porta di casa nostra non si è più aperta. In quei giorni i pensieri andavano avanti e indietro, dentro e fuori dall’atmosfera, in un turbinìo di immagini agghiaccianti e grida senza pace. Immaginavo voi, ragazzi, splendidi militanti cocenti di una rabbia sana e giusta, accovacciati contro un muro della Scuola di Meccanica dell’Armata, braccati dai soldati di Videla e torturati, e torturati ancora. Era un luglio tremendo, di un caldo velenoso e grondante di sangue, ma tu ci avevi detto che tornavi e noi, noi niente, noi ci siamo stretti ad aspettarti.
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ll vento che stasera suona attento –
ricorda un forte scotere di lame –
gli strumenti dei fitti alberi e spazza
l’orizzonte di rame
dove strisce di luce si protendono
come aquiloni al cielo che rimbomba
(Nuvole in viaggio, chiari
reami di lassù! D’alti Eldoradi
malchiuse porte!)
e il mare che scaglia a scaglia,
livido, muta colore
lancia a terra una tromba
di schiume intorte;
il vento che nasce e muore
nell’ora che lenta s’annera
suonasse te pure stasera
scordato strumento,
cuore.
Eugenio Montale – Ossi di seppia