Figlia mia, sogno della mia vita, non chiedermi di lasciarti andare. Sono passati tanti anni da quell’ultima fredda telefonata, ma ricordo ancora come se fosse ieri gli occhi di tuo padre che si staccano dal pavimento per posarsi sul mio volto impaurito. “Tornerà, mi ha detto che tornerà”, e invece la porta di casa nostra non si è più aperta. In quei giorni i pensieri andavano avanti e indietro, dentro e fuori dall’atmosfera, in un turbinìo di immagini agghiaccianti e grida senza pace. Immaginavo voi, ragazzi, splendidi militanti cocenti di una rabbia sana e giusta, accovacciati contro un muro della Scuola di Meccanica dell’Armata, braccati dai soldati di Videla e torturati, e torturati ancora. Era un luglio tremendo, di un caldo velenoso e grondante di sangue, ma tu ci avevi detto che tornavi e noi, noi niente, noi ci siamo stretti ad aspettarti.
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Ora che stenti a riconoscermi, che non mi chiami più il sabato per sapere se passo a trovarti, a portarti una pizza, ad aiutarti a fare tutte quelle piccole imprese che la sedia a rotelle ti impedisce di realizzare, sento di doverti delle scuse. Scusami per la mia arroganza verso i pericoli della vita, per la mia mancanza di saggezza nell’affrontare le battaglie del mondo. Pur vedendo in te i segni di quanto può essere rischioso giocare con il fuoco, ho continuato ad avvicinare la mia mano al bracere, al pericolo, maleducato nei confronti della fiamma e dell’universo.
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Cammino dove ho già camminato un milione di volte, lungo la strada che taglia in due il parco dove ho guidato il mio primo motorino, dove ho fumato la prima sigaretta e dato il primo bacio. Nelle cuffie suona una morbida chitarra folk. È mezzanotte, ma il cielo è rossastro lungo la linea degli alberi. Non ci sono stelle, non c’è luna che possa lenire la mia nostalgia, solo odore d’erba e di campi bagnati dall’aria di primavera. Passo affianco a dove giocavo a calcio da bambino insieme ai miei fratelli.
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“Per favore mamma, non essere arrabbiata con me. Son dovuto partire nella notte, e non ti ho salutato per paura di come tu avresti potuto provare a dissuadermi dal farlo. Ma io non ce la faccio a vivere così, a Kallstadt, tra le rovine umane di una regione impoverita dalle guerre, tra le vigne spoglie che ci ricordano un passato che non c’è più.
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Parlavo con un conoscente di origini pugliesi convinto che l’immigrazione sia una piaga sociale, e mi sono chiesto: “Chi è il migrante del ventunesimo secolo?”. Una persona che cambia terra, che cambia casa, che si spinge attraverso linee immaginarie per motivi sociali, politici, economici. Così è nel 2016, così era negli anni ’60, quando intere popolazioni si spostavano dal sud al nord Italia perseguitate da denigrazioni e stereotipi di ogni tipo;
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